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ATELIER
di Matilde Sartorari
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F. Casati
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F. Casati

 

Accade raramente di incontrare un vero artista, specie in momenti   nei quali la mediocrità della produzione si associa alla quantità,soprattutto nel campo della pittura figurativa.

Attorno agli anni settanta, quando conobbi Matilde Sartorari, ancora fresco di una tesi di laurea su Max Ernst e il Surrealismo, mi sentivo dalla parte dello sperimentalismo più spirito, delle più accese e incandescenti espressioni dell'arte contemporanea. Leggevo,appunto, Gillo Dorfless. A distanza di tanto tempo non rinnego, certo, gli entusiasmi e i valori di allora, per altro oramai storicizzati; riconosco, tuttavia, che quel clima mi impedì a lungo di riaccostarmi alla pittura ad olio, nel terreno che più le è consono, quello dell'arte figurale. L'incontro con Matilde Sartorari mi riaprì gli occhi sul valore della pittura figurativa, riconciliandomi con una tradizione che sa collegarsi al presente, ogni volta che rinnova i segni della propria scrittura.

AI copolinea della frazione veronese di Avesa vidi il controllore aiutare a scendere dal bus un'anziana signora che sosteneva, in una mano, una cassetta di colore. La curiosità mi spisne a seguire con gli occhi questa donna che si avviava, solitaria, fra le strette stradine del borgo, i bianchi capelli che risaltavano da quella esile figura vestita di scuro; per assistere, ignaro, a quell'atto di fedeltà al `plein-air' che caratterizzò tanta parte dell'attività pittorica di Matilde Sartorari, a quella ricerca di uno scampolo di realtà dal quale scaturisce l’evento di una visione, di cui l'artista é un attivo testimone; di un angolo di luce che le ispirasse il rinnovarsi, l'accendersi di quella emozione che la investiva come un messaggio d'arte. Da una breve conversazione scaturì, spontaneo, l'invito a visitare lo studio cittadino di via Santini, al numero 9. Ed eccomi accolto nell'arioso appartamento, all'ultimo piano di un moderno ed elegante condominio, le cui ampie porte-finestre aprivano la vista sulle verdi Torricelle e sulle amene colline di Avesa. L’arredamento era rigorosamente antico, pur senza appnri e vistoso. Alle pareti si fdcevano ammirare le grandi opere dell'artista, quelle stesse che trovarono la loro ultima e degna cornice nella mostra Settembre `88 allestita al Castello di Malcesine: le vedute di Londra, di Parigi, i ritratti, i grandi vasi di fiori. In una comoda poltroncina stile impero assaporavo la nobile eleganza dell'ambiente, avvalorata da quelle tele irripetibili. Di rado mi capita di trovarmi a disagio di fronte a una persona, ma davanti all'anziana pittrice mi sentivo trapassar e da due occhi azzurri penetranti, pur dietro le lenti, abituati all’esercizio dello sguardo; capivo che non potevo, avere segreti. Nell'amabilità della conversazione si dileguava, tuttavia, il mio imbarazzo; mentre. nei gesti semplici dell'ospitalità (il bicchierino di Vermouth, la presentazione dell'amatissimo gatto) essa frantumava il grosso peso della sua personalità.

Erano le ore dei. mattino, perché soltanto. i  quel momento accettava di mostrare i propri quadri, con la stessa luce nella quale erano stati dipinti. Un' erta scala in legno conduceva all’attico-studio ampio e severo, arricchito da un grande e antico camino in marmo. In un’angolo in luce si ergeva il cavalletto, sul quale la pittrice poggiava i cartoni che di volta in volta mostrava all' attento amatore. Non posso descrivere l'emozione che provavo di fronte allo scorrere di quei piccoli cartoni grigi che racchiudevano tanto spazio pittorico, e 1'alito di vita che emanava dai paesaggi, dai ritratti e dalle nature morte che si alternavano davanti ai miei occhi. Quando uscivo da quella casa mi sentivo come il depositario di un segreto, testimone di una rara bellezza, guardavo all’esterno con il distacco e la felicità di chi..ha scoperto un mondo migliore fintanto, almeno, che questa illusione poteva durare. Mi riconciliai, così, con la pittura figurativa; instaurando un. rapporto di amicizia e di stima con un'artista fra le più rappresentative alle quali Verona abbia dato i natali.

La parabola artistica di Matilde Sartorari cominciò nel lontano 1919, con una mostra personale al Lyceum di Firenze. Nel capoluogo toscano si era trasferita da Zevio la sua agiata famiglia, nel 1917, timorosa di un' invasione del Veneto, a seguito della rotta di Caporetto. L'esperienza di vita nella campagna di Zevio si fuse nella giovinetta Matilde con i temi cari ai pittori post-macchiaioli, da Galileo Chini a Francesco Gioli e, infine, a Cesare Ciarìi, che ne indirizzò e valorizzò le innate doti pittoriche. Il contatto con il vivo scenario della natura e con 1' umile gente dei campi ne marchiò per sempre 1'animo sensibile, divenendone una continua fonte di ispirazione: i suoi soggetti furono, perciò, analoghi a quelli dei pittori toscani.

Scrive Giuseppe Silvestri: `Matilde Sartorari era nata a Zevio (Il 10 Giugno 1902 n.d.r), un pingue paese della `bassa' prossimo alla riva dell'Adige. La campagna veneta, con i suoi aspetti gravi e solenni, ha sempre confortato gli spiriti intimi e meditativi. Vi si vive in affettuosa consuetudine con la gente umile e con gli animali, amando questi in particolar modo. Ed anche se la nebbia come spesso avviene d' inverno cala sui campi solcati da pigri specchianti  canali, attenundo i profili delle forme e sfumando dolcemente ogni tinta, I' ambiente é tuttavia propizio all' esercizio della pittura. In quella solitudine, in quell' incanto un pu' malinconico, Matilde Sartorari ha colto le sue prime `impressioni', ha fissato su la carta e su la tela le sue prime`macchie' di colore, come i capitoletti di un diario del suo entusiasmo e della sua contemplazione'.

Dal catalogo della mostra milanese del Febbraio 1950, c/o la galleria Cairola). I temi prediletti della sua pittura furono proprio quelli agresti, fra i cui soggetti spiccano ritratti di contadine, di bambini nella loro povera e innocente spontaneità, dai quali traspare il senso di un' intensa partecipazione, di un sentimento di umanità di sapore tolstoiano. Aristocratica fu la pittura di Matilde Sartorari, nel senso della sua elezione, ma non lo fu nel suo intimo la donna, più attenta alla vita delle classi umili che a quanto accadeva nel suo ambiente. La sua esistenza schiva e appartata, la sua cultura (nel vero significato del termine ) ne sono state ampia testimonianza. Dalla mostra del Lyceum di Firenze Matilde conservò 1'album delle firme, una pregevole agenda rilegata in pergamena, con intrecci decorativi in pelle. Artisti, contemporanei, critici ed amatori d' arte non vi lesinarono accenti di ammirazione, verso una diciassettenne pittrice, la cui sbarazzina presenza sottolineata da un vestitino alla marinara tipico degli adolescenti di allora, smentiva 1' austera lezione di pittura che testimoniavano le tele. Si presentò accompagnata dalla madre Adelina, signora di grande intelligenza e cultura, e di particolare fascino; vi fu perfino chi approfittò dell' album per indirizzare dei complimenti a questa ammiratissima donna di società. Jn effetti fu lei a spianare alla figlia la strada dell' arte, non solo consentendo ma anche guidandone 1' attività. Una fortuna, per quei tempi, non certo propizi all' affermazione delle donne. Alcuni   artisti  arricchirono quest' album con dei bei disegni.

Lo stesso Cesare Ciani vi rappresentò le doime di S. Frediano, in un gustoso quadretto d' ambiente, con colori a matita tinta seppia. Nel retro della stessa pagina scrisse un lungo messaggio dedica a Matilde, esponendo i] proprio concetto dell’arte: "La pittura, come ogni altra arte bella, non é imitazione della realtà. (...) Voi non

   
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