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ATELIER
di Matilde Sartorari
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Biografia dell'artista

Il primo atto con cui la figura di Matilde Sartorari viene inserita nell’ambito della pittura veronese risale al 1971 quando Licisco Magagnato e Gian Paolo Marchi la selezionano per la mostra dedicata a una delle stagioni più ricche di fervori innovativi nella storia locale, coincisa con l'azione svolta da artisti e letterati, con la nascita di riviste e con la fitta rete di relazioni che alle soglie degli anni Venti hanno contribuito ad ampliare l’orizzonte culturale della città.

 
Si tratta dell’unica presenza femminile nell’esposizione, significativa nonostante lo scarso risalto dato alla sua opera poiché testimonia l'intenzione di annoverare la pittrice in un contesto a cui in realtà è sempre rimasta estranea. 

Si tratta del gruppo cui fanno parte Zamboni, Pigato, Farina, Prati, maturato nel solco di un linearismo sintetico che molto deve agli echi secessionisti d’oltralpe e che particolarmente vivace è stato negli anni concomitanti o immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Se tangenze tra la Sartorari e il cenacolo dei giovani in questione sono state ravvisate, esse si limitano alla comune partecipazione a rassegne organizzate entro il 1922, essendo profondamente diverse le matrici culturali e gli esiti figurativi che entrambi han no manifestato specialmente nella fase iniziale delle loro ricerche. Nata a Zevio il 10 giugno 1902 da Adelina e Agostino Sartorari un agiato possidente terriero, la piccola Matilde cresce assimilando stimoli e suggestioni di un mondo rurale che rappresenterà sempre la sua principale fonte di ispirazione. Compie gli studi classici presso il Reale Collegio agli Angeli dove si distingue per intelligenza geniale” e per ‘gentile bontà”.

Dopo lo scoppio del conflitto mondiale, la preoccupante situazione politica diviene sempre più incerta quando nel giugno del 1916 le truppe austro-ungariche sferrano la violenta offensiva contro l‘esercito italiano, fino a precipitare nell’ottobre dell’anno seguente allorché il nemico a Caporetto penetra nel fronte  nazionle aprendosi una via verso il Paese. E’ allora che la famiglia Sartorari decide di trasferirsi a Firenze dove già da tempo soggiorna il padre Agostino.

Il capoluogo toscano, antica capitale del Regno sempre prestigiosa per le sue glorie e bellezze, è stata decenni adddietro teatro di sensibili innovazioni in campo artistico. La rivoluzione della 'macchia', nata dagli incontri al Caffè Michelangelo di personalità tra cui Adriano Cecioni, Telemaco Signorini, Cristiano Banti, Odoardo Borrani, ha avviato un’energica opposizione al repertorio tradizionale legato a tematiche storiche, civili e religiose per promuovere una concezione del paesaggio che si ispira alle moderne ricerche tonali e luministiche derivate dall’impressionismo. Se il carattere cosmopolita della città, alimentato dal continuo passaggio di visitatori e dalla presenza di stranieri soprattutto anglosassoni, ha contribuito a stimolare l'apertura verso correnti di idee e di gusto provenienti dall’estero, altre sono state le occasioni di aggiornamento sulle novità d’oftralpe.

I soggiorni a Parigi trascorsi da vari esponenti della scuola locale, l’impegno teorico di Diego Martelli e iniziative quali la mostra tenutasi nell’inverno del 1880 che ha riunito a Firenze maestri francesi tra cui Millet, Corot e i barbizonniers Dupré, Rousseau e Daubigny, hanno promosso in ambito toscano il gusto per una pittura ricca di luce e di atmosfera, resa con piglio da “istantanea”.

La formazione della Sartorari si compie pertanto in un contesto ancora dominato dagli eredi della stagione macchiaiola, che attraverso formule rinnovate rispetto ai dettami accademici sanno cogliere nei momenti di una vita condotta entro i limiti del contado gli elementi per un repertorio tematico ricco di spunti.
Incoraggiata nelle inclinazioni artisti che dalla madre, donna di “rara intelligenza e bellezza”, la giovane si iscrive all’Accademia dì Belle Arti, abbandonandola ben presto. E’ Galileo Chini, docente di pittura presso l’ateneo fiorentino, a suggerirle di affidarsi agli insegnamenti di Francesco Gioli, che a sua volta la indirizza a Cesare Ciani.
Gli esiti del breve apprendistato e i primi esercizi fìgurano nella mostra personale inaugurata il 25 giugno del 1919 in una sala del “Lyceum” in Via Ricasoli a Firenze, che rappresenta l’esordio espositivo compiuto all’età di soli diciassette anni. “La signorina Sartorari è sorprendente per la sua precocità (..). Salvo in alcune piccole figure, non somiglia neppure al maestro. E’ un’istintiva che deve seguitare a lavorare così come le detta l’estro, senza preoccupazioni. E’ proprio questa mancanza di preoccupazione la quale produce, nella pittura della Sartorari, quel senso di gioia libera che si riflette dalle pennellate sicure, dalla delicata armonia dei rapporti, dalla giustezza dei toni’, afferma Ferdinando Paolieri nella recensione uscita sul quotidiano “La Nazione”. Dato il mancato reperimento del catalogo, l’articolo è il solo documento che consenta di individuare parte delle opere esposte che comprendono tra l’altro paesaggi e studi di figura. Mario Tinti, critico di punta nel panorama fiorenfino, nel suo intervento uscito il 6 luglio sul “Il Nuovo della Sera” concorda nel rivolgere alla giovane parole di elogio per il “dono di spontaneità, d’istintività” rilevando inoltre la perizia con cui sa individuare la struttura compositiva del soggetto. Se nelle spiccate assonanze con il linguaggio di Gioli può insidiarsi il pericolo di “eccezionali facoltà mimetiche”. a suo parere la Sartorari sa trattare la materia con estrema disinvoltura, in stesure  ora dense ora trasparenti che conferiscono profondità ai piani e corposità agli oggetti. “ Ed io vedo nei primi esperimenti di questa giovane, fuori della suggestione dei maestri, qualcosa di fresco, di candido, di nativo da cui potrà uscire in seguito, con la disciplina e la volontà un
definitivo carattere di artista”. Anche dopo la morte di Gioli, avvenuta nel 1922, la giovane manterrà vivo il rapporto epistolare con i familiari del maestro. Come Gioli anche la Sartorari raffigura iI lavoro nei campi senza tensione o risentimento, e nei ritratti la sua indagine è volta a carpire con sensibile discrezione i moti interiori celati in un volto o un gesto.

All’inaugurazione convergono i pittori Llewelyn Lloyd e Io stesso Gioli, mentre altri quali Alfonso Hollaender e Vittorio Matteo Corcos dichiarano la loro ammirazione per le sorprendenti qualità stilistiche. I consensi che la critica le rivolge superano i confini locali per riscuotere ampia risonanza anche in ambito veneto.

All’Esposizione Nazionale d’Arte, aperta tra l’agosto e il settembre del 1920 in Palazzo del Giardino Salvi a Vicenza, la giuria di accettazione composta da Alessandro Milesi, Edoardo Rubino e Beppe Ciardi, in contrasto con la norma del regolamento che sancisce l’ammissione degli artisti al massimo con tre opere, dedica alla Sartorari un’intera sala dove riunisce quaranta suoi lavori.

Salutata come “speranza dell’avvenire”, la pittrice suscita interesse per “il senso del disegno preciso, il colore in rapporti sempre eccellenti ed una naturale franchezza d’insieme” che “farebbero credere ad una mano matura, di maschio tanto è franca la pennellata, e virile”, come annota Ugo Zampieri il 6 settembre su “L’Adige”. Tra le opere esposte, per lo più studi di piccole dimensioni, la critica segnala S.Vigilo sul Garda, Piazza S. Ambrogio (Firenze), “il più gioioso come colorismo”, Mattino d’ottobre,  Signora al sole e Una strada. Emergono inoltre alcuni esercizi a “impressione” di equilibrato vigore compositivo come Barroccio toscano, una “squillante nota di colore”, cui si affiancano bozzelti di interni e nature morte tra le quali Zuccheriera e frutta. 

La pittrice non prescinde da un “verismo” che nasce dall’osservazione diretta del soggetto e si traduce nel rispetto delle forme e degli accordi cromatici. Non conc
   
© ATELIER di Matilde Sartorari
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