Non è il linguaggio, voglio dire, della Verona dei primi anni
del secolo, percorsa dai brividi secessionisti che attraversavano
la Mitteleuropa. quello di cui
Matilde Sartorari si serve per sospendere nella magia della pittura la
quotidiana percezione della realtà.
La serenità della visione ricerca i ritmi dell’intimità
dell’animo, approdando a quelle armonie interiori che appartengono alle tradizioni
antiche dell’arte umbra e toscana; e le rintraccia laddovc più umile appare il
contesto umano e paesaggistico.
La natura, per la giovane Matilde che studia all’Accademia
di Firenze, sotto la guida di Francesco Gioli e Cesare Giani, è una materia
grezza, ma dotata di tepori e morbidezze. in ogni caso malleabile al punto di
lasciarsi guidare nelle cadenze formali più disponibili al dialogo. Ma non è
già più quella che si ‘esaltava” nella pittura di un Giovanni Fattori. Ad
eccezione del maestro livornese, i pittori della “macchia” traslocarono presto
nel bozzettismo ottocentesco, che di fatto si riabilitava ad esiti di più ampio
respiro solo quando riusciva a far percepire i rintocchi di un intimismo non
inquinato dalla maniera. Proprio i luoghi “alti” di un simile intimismo sono
quelli che incidono maggiormente nella formazione di Matilde Sartorari, specie
quando la pittrice allunga, per così dire, la sua pennellata nell’onda di un
ritmo pacato ma non acritico, nel teatro spaziale di una struttura compositiva
riguardosa della verosimiglianza, ma non appiattita sulla ritualità della
raffigurazione.
Se Firenze rappresentò per lei l’apprendistato della prima
maturazione e degli esordi pubblici, l’Europa, da Parigi a Bruxelles a Vienna,
fu il vasto panorama di vita e di lavoro, di studi e di conoscenze che finì per
completarne convinzioni e sicurezza. Cosicché, al ritorno a Verona, nel
dopoguerra, Matilde Sartorari aveva ormai tutti gli strumenti del suo repertorio
ben torniti ed efficienti, ad esclusione di quegli “aggiustamenti” che gli anni
ed il rinnovarsi delle stagioni producono come conseguenza inevitabile. In
così vasto e lungo trasmigrare da un clima culturale all’altro
la Sartorari sembrava
tuttavia aver raccolto alcuni “messaggi” ed averne scartati altri. Tra quelli
raccolti, certamente va detto di Semeghini, da un lato, e di De Pisis
dall’altro. Naturalmente mediati attraverso il taglio di pittori come Friesz, o
addirittura Tarkoff, certamente conosciuti in giro per l’Europa. Si pensi, ad
esempio, alle superfici “nude”, specie nel caso dei cartoni, laddove le
tonalità dei fondi non “preparati” diventano a loro volta pittura.
Ma nel linguaggio della Sartorari quei brani di superficie
non dipinta sono inclini a divenire forma: fuga di una strada, selciato di una
piazza, facciata di casa, e così via, attraverso un originalissimo
reinvestimento del cosiddetto “non-finito”, che in questo caso corrisponde ad
una strategia del tutto preordinata. Così come fa parte di un preciso progetto
il fatto che queste superfici non dipinte, anziché mettere in dubbio la
struttura prospettica dell’opera. ne controfirmino invece i valori plastici,
in una sorta di sorprendente conciliazione della contraddittorietà di fondo.
E’ proprio attraverso questa pacata forza espressiva,
attraverso una tale, serena presenza delle cose, che Matilde Sartorari
acquista, di tela in tela, quei clima di quotidiana fermezza delle cose, di quotidiano
ma non banale dispiegarsi delle forme del mondo davanti al nostro sguardo, che
caratterizza la sua arte. Io lo chiamerei “il coraggio quotidiano”, tanto più
ardito quanto più son le cose semplici di ogni giorno, una brocca, i tetti
delle case, un viale alberato, a raccontare una storia comune, da Tparigi a
Verona, da Firenze a Vienna: una quotidiana storia di uomini e di cose, avvolti
in una comune, solitudine terrestre.
Giorgio Cortenova