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ATELIER
di Matilde Sartorari
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A. Mozzambani

FORTUNA CRITICA Le fortune artistiche di Matilde Sartorari sono legate a Firenze, dove si trasferisce con la famiglia dalla natìa Zevio durante la prima guerra mondiale avendo come Maestri Gioli e Ciani, due degli ultimi pittori “macchiaioli” ancora attivi in Toscana. Nel 1919 proprio Ciani organizza la sua prima personale al Lyceum di Firenze all’età di 17 anni, fatto che le valse importanti riconoscimenti.

 

La primissima formazione dunque è “mac­chiaiola”, risultanza anche determinante, ma che però si completa dopo il matrimonio avve­nuto nel 1924, soprattutto nei viaggi e nei per­nottamenti in Francia, dove la pittura post­impressionista di Pissarro, Sisley e Callebotte aprì alla giovane signora un mondo internazio­nale. A quel punto i viaggi, perlopiù in Inghil­terra, confermarono fasi estetiche significative, insieme ai periodi in Costa Azzurra, e altresì nel sud della Francia apportante luci e colorazioni diverse, ancor più la capacità di adeguamento sintomatico con gli ambienti e le località via via frequentate e vissute pur dopo periodi dolorosi e tragici in seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale e l’arrivo dei tedeschi.

Il marito ammalato era ricercato essendo ebreo, ma il coraggio della moglie riuscì a salvarlo.

Da anni felici e operosi felicemente, ad altri invece tragici ma lo stesso operosi, Matilde Sartorari diventa pittrice matura e straordina­ria, per cui finita la guerra tornando a Verona, pur dopo la scomparsa del marito, è pronta ad accogliere la “Scuola veneta”, soprattutto sce­gliendo Semeghini e Pigato, sia sul piano umano che quello artistico. La sua maturità è formidabile, per cui dalla Valpolicella a Veronetta (Piazza Isolo in primis e i lungadigi), da Asolo a Venezia, da Burano a Torcello e Chioggia, si offrono subito temi e visioni perfetti, che vengono privilegiati al massimo da un nuovo maestro sì femminile ma con mano ferma e rapinosa. Fa subito meravi­glie l’adattamento simultaneo della Sartorari alla luce tersa della Valpolicella, a quella più assoluta, o variabile, del lago di Garda, passan­do poi alla purezza di Asolo, per trovare la ricchezza anche orientale di Venezia e Chioggia e delle isole della Laguna, che han­no fatto buona parte della fortuna di Semeghi­ni e di Gino Rossi.

I risultati sono preziosi, ma anche inediti e da gustare in pieno. Così accade coi fiori, da quelli di campo a quelli di serra, alle nature morte composte con eleganza sorprendente. Va infatti ad esporre a Milano con successo com­pleto; quindi a Genova, per tornare in Veneto, dove però aldifuori di Semeghini e Pigato sono rari coloro che la onorano come merita.

Si legga soprattutto il testo di Giuseppe Bru­gnoli sul prezioso catalogo stampato nel 1974 in seguito alla maestosa (quasi) antologica di S. Pietro in Cariano. Eppure avevano scritto Tinti e Roberto Papini; Cairola e Grazzini, Borgese e Vergani, con entusiasmo. Anch’io arrivo tardi, negli anni ‘80, quando la pittrice abitava in quartiere Pindemonte e dipingeva per molti mesi Avesa e Quinzano, prima del periodo esti­vo dove arrivava lo spostamento a S. Ciriaco e il bagno di luce della Valpolicella.

La pittrice con elegante modestia e signorilità accettava visite e complimenti di certo do­vuti, lavorora al suo covalletto ogni giorno in studio e all’aperto con briosa velocità, con rara partecipazione, cogliendo quasi sempre il cuore dei modelli, fossero cose famigliari o fiori, o pae­saggi. Verzellesi giustamente mi anticipa. Butturini misegue, come Trevisan pur legati allo spazio ristretto della recensione giornalistica.

Matilde Sartorari ha continuato la sua pro­fessionalità senza mai abbandonare la gara con sè stessa per raggiungere il cuore dei suoi temi, dei suoi mirabili quadri inventivi e accostati non tanto al vero ma alle leggi nel vero dipin­gere. Si guardino i fiori, le nature morte, che più dei paesaggi conservano equilibri coloristici e formali, che altresì denotano avventure tonali al limite della scoperta.
Il paesaggio mostra la fecondità coloristica della pittura, pennellata dopo pennellata, con squilli tonali facoltosi e improvvisi, come la nostra grande pittrice trovasse in quell’occasione la bellezza di sorprendersi, di vedere solo allora quel suo risultato. Fatti nati interiormente perché il tempo degli studi pittorici era finito in Francia, come per i veneti dopo gli anni ’50 dato il compiacimento della solitudine, della verità arrivata solo dal lavoro della pittura quadro dopo quadro. Ha detto bene Altichieri, sempre nella fortunata pubblicazione già citata per Brugnoli, e dico così malgrado si rischi l’agiografia. Il femminismo della Sartorari è talmente intenso da sfiorare la casualità di uno strano “menefreghismo” inconscio. La sua qualità ha dietro di sé la scuola “macchiaiola”, ha gli anni straordinari in Francia, dove alle immagini pittoriche si sovrapponevano quelle dal vivo, e non a caso ho citato gli equilibrismi anche fantomatici di Callebotte, poco conosciuto in Italia.
La pittrice sceglieva tuttociò che era a lei vicino e conseguente, ed è per tali miracoli quotidiani e comuni, magari perfino consueti, che oggi, e di sicuro domani, i quadri avranno ammirazione e la genialità dell’emozione. E Matilde Sartorari dipinge fino alla fine da “Maestra” della pittura veneta.

 

Alessandro Mozzambani

 

   
© ATELIER di Matilde Sartorari
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